Le tende dell’alba

di Gian Pietro Basello

Nomadi vicino a Naqsh-e Rostam, giugno 2003 [foto di Grazia Giovinazzo]

Nomadi. Ce ne sono ancora tanti in questa zona del Fārs. Piantano le loro tende in mezzo al niente e lì trovano la loro casa.

Oggi sembrano tendoni da circo. Li fece innalzare, disponendoli a grappoli regolari in mezzo ad un giardino, lo scià (shah). Non è facile immaginare, assecondando con il passo la cadenza del gettito dell’impianto di irrigazione artificiale, la vita che animava questi scheletri di ferro e brandelli di stoffa nell’ottobre 1971, a 2 500 anni da quel 539 a.C. in cui Ciro conquistò Babilonia, la grande città della Mesopotamia, simbolo politico e ombelico culturale. Allora qui c’era tutto il mondo, i magnati della terra, delegazioni e diplomazie di oltre 23 paesi. Tappeti, luci, banchetti, lo sfarzo di una corte. Per lo scià, il mondo della cultura si confondeva con la diplomazia e la politica. Il professor Richard Frye era qui nel 1971: era uno studioso affermato, ed era stato invitato. Esattamente 30 anni dopo Frye mi raccontò del deserto trasformato in una reggia dalle mura di tessuto damascato, con piante ed alberi come arredi, e morbidi soffitti stellati. La rivoluzione ha spazzato via tutto. O, meglio, non ha più toccato niente. È tardi e siedo accovacciato all’aperto, mentre una pattuglia di militari mi guarda come si guarda un settentrionale a Napoli. Chiacchiera a bassa voce e tirano a turno dal qaliyun (pipa ad acqua) del nostro autista. Non sarebbe stato facile immaginare una serata così fresca quella mattina, all’inizio di una giornata passata sotto un sole che trasforma la pietra, la terra, i volti degli uomini di ogni colore in ocra.

[da <http://www.mindspring.com/~kdishman/Behforouz/Behforouz_docs.htm
http://www.iranian.com/CyrusKadivar/2002/January/2500/>] [da <http://www.afghanistan-seiten.de/iran/031persa.htm>]
25 settembre 2005 [foto di Marco Loreti]
[Da <http://members.ozemail.com.au/~ancientpersia/tents.html>]

23 sono i paesi di cui si proclama re Dario nell’iscrizione di Bisotun (521 a.C.). Nel 1971 le delegazioni erano 60; si veda il dettagliato resoconto in <www.iranian.com/CyrusKadivar/ 2002/January/2500/>.

Herodutos describes Xerxes’ march through northern Greece and makes several references to Xerxes’ tent but gives us no description: "On the arrival of the Persians, a tent ready pitched for the purpose received Xerxes, who took his rest therein, while the soldiers remained under the open heaven. When the dinner hour came, great was the toil of those who entertained the army; while the guests ate their fill, and then, after passing the night at the place, tore down the royal tent next morning, and seizing its contents, carried them all off, leaving nothing behind". [...] Pausanias, (Guide to Greece), claims that the Odeion was built to resemble Xerxes’ tent, while others, consider it a copy of the Hall of the Hundred Columns at Persepolis which was begun by Xerxes and has the same internal measurements and the same number of columns as the Odeion.
[Da <http://members.ozemail.com.au/
~ancientpersia/tents.html
>]

Dopo una notte di viaggio, mentre i raggi dell’alba accarezzano la sommità della Collina Reale, corro, sbuffo e saltello fino all’estremità della pista dell’aeroporto abbandonato, fino al punto in cui l’asfalto si confonde con la sabbia. Siamo arrivati troppo presto: è quello che ci conferma un funzionario che la sera prima aveva dimenticato di adeguare la sveglia all’ora non più estiva. All’ingresso, un cartello riporta la scritta ‘Pardis’, luogo di delizie cinto da alte mura, lo stesso nome con cui lo aveva chiamato lo scià. Oltre il giardino, sapientemente appoggiata ad una propaggine della collina che ghermisce la piana, c’è la piattaforma. L’enorme terrapieno è contenuto da massi ciclopici, di forme diverse, dai tagli rettilinei giustapposti, incastri che disegnano sulla facciata levigata incontri e fughe di segmenti a zig-zag. La larga scalinata sale simmetricamente lenta; era stata pensata per i cavalli. Dalla piattaforma, che in questo punto è alta 7 metri, si innalzano ruderi, colonne, architravi e stipiti: il trionfo della pietra sul tempo, sul sole, sulla neve e sul vento. Le colonne della sala del trono erano 100; 36 quelle dell’apadāna: erano, e sono ancora le superstiti, alte 19 metri, con un monumentale capitello a forma di doppia protome taurina, alle cui spalle gravavano possenti travi in legno del Libano. Gli architravi e gli stipiti sono quelli del palazzo del re: i telai delle finestre, in pietra, si affacciano ancora sullo stesso lembo di pianura, e mi chiedo quanto sia mutato il paesaggio di allora. Su ogni telaio, un’iscrizione in tre lingue, antico-persiano, elamico e babilonese, ricorda chi era colui che poteva legittimamente affacciarsi da esse: Dario, il grande re, il re dei re. Mi aggiro dalla sala centrale a colonne verso il porticato meridionale, varcando l’antica soglia. Dario era morto da tempo, dico Dario I (522-486 a.C.), quando prese possesso del palazzo Alessandro il grande (331 a.C.). Parlavano due lingue meno diverse di quel che si potrebbe credere, ma erano esponenti di due mondi apparentemente incompatibili e militarmente opposti. Con Alessandro l’Occidente inizia ad orientarsi, guardando verso Oriente. I paesi che Alessandro attraversa vittorioso sono sconfinati quanto quelli che erano controllati da Dario: i loro nomi si dispongono sulla cartina coprendo tutto il Vicino Oriente fino a raggiungere l’Asia centrale, l’Afghanistan e il Pakistan, fino ai confini dell’India. Tradizione vuole che Pārsa, la piattaforma con i suoi palazzi e spazi monumentali, “la più ricca città sotto il sole”, sia stata distrutta da un incendio scoppiato per colpa dell’esercito di Alessandro, e da allora le rovine sarebbero state conosciute come Sat-setūn, ‘le cento colonne’, destando ancora ammirazione e stupore agli occhi degli antichi visitatori. Oggi si chiama Takht-e Jamshīd, il palazzo di Jamshīd, il sovrano mitico dello Shāh-nāme, il ‘libro dei re’, del sommo Ferdowsi (circa 1000 d.C.). Noi, con i greci, la chiamiamo Persepoli.

Alba del 21 settembre 2004 dalla pista dell’aeroporto abbandonato di Persepoli: il sole sorge dietro il Monte della Misericordia; le colonne dell’Apadana sono ancora in penombra [foto di Marco Loreti]

Eravamo partiti dopo cena da Esfahan, oasi nel deserto, la città che vanta le più belle moschee della Terra. Alcune ragazze del luogo stavano parlando con me (il turismo ha risentito di una forte flessione dopo l’11 settembre), quando sull’enorme piazza dell’Imam si era scatenata una tempesta di sabbia. Il cielo era diventato ocra, e le gallerie del bazar-e bozorg, il grande bazar, erano perforate dagli sciami di sabbia. Durante la giornata avevamo visitato i palazzi, i giardini e le moschee. Le colonne slanciate della terrazza del palazzo di Ali Ghapou ci avrebbero ricordato quelle di Persepoli. Nella decorazione delle moschee c’è lo stesso horror vacui del nostro barocco, ma i complessi intrecci floreali e gli spigolosi motivi geometrici sono disegnati in modo tale da apparire distinti solo da vicino, mentre da lontano sottolineano le forme dell’edificio imbevendosi della luce solare che restituiscono tinta di blu, nella sfumatura che la natura dona al cielo con parsimonia allo scadere del crepuscolo dopo un intenso tramonto estivo. In Italia, qualche tempo dopo, sfogliando gli scaffali della libreria di un amico, ritroverò quel blu sulla copertina di un’edizione di lusso di un libro famoso: un dettaglio miniaturistico, una nicchia smaltata, ma l’intuizione è tale da non aver neppure bisogno della conferma della didascalia sul retro. All’interno, sulle facciate e nei cortili non ci sono quadri e non ci sono statue: è la stessa scrittura che si trasforma in decorazione, rendendo eternamente presenti le lodi ad Allah.

Fregio decorativo calligrafico al di sopra di una porta che si affaccia sul cortile della Moschea del Venerdì di Esfahan, giugno 2003 [foto di Grazia Giovinazzo]
Un’improvvisa tempesta di sabbia cala sulla grande piazza dell’Imam a Esfahan [foto di Marco Loreti]
Le linee architettoniche e i colori del rivestimento maiolicato catturano lo sguardo, ma solo per farlo levare verso il cielo, 20 settembre 2004 [foto di Gian Pietro Basello]

489 chilometri ci separavano ormai da Hamadan, l’antica Ecbatana dei Medi, nel cui archivio reale, secondo il libro biblico di Esdra (capitolo 6), venne ritrovato il rotolo che certificava il permesso alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme dato dal sovrano persiano Ciro. Qui, secondo i musulmani che le venerano tuttora, sono conservate le spoglie dell’ebrea Ester e di suo padre adottivo Mardocheo. 549 chilometri prima eravamo nel Kurdistan iraniano: tre, forse quattro, i villaggi con le case ocra di argilla e covoni di paglia incontrati prima di arrivare a Takab; per strada la gente mi ferma e, parlando un buon inglese, mi costringe a parlare di politica.

Un villaggio sullo sfondo del cratere di Zendan-e Solaymān nel Kurdistan iraniano, 16 settembre 2004 [foto di Marco Loreti]

Eravamo partiti da Tehran, 3 volte e mezzo Roma, una distesa sterminata di case bianche e basse mentre l’aereo si appresta ad atterrare. Tehran, una delle capitali più trafficate del mondo, ma se da un marciapiede chiami il tuo amico sull’altro lato della strada ti può capitare di essere rimproverato da un passante. Tehran, con i lunghi viali di alberi piantati nei jub, le canalette che smaltiscono l’acqua dei monti. Tehran, città dai rettilinei interminabili e dagli attraversamenti pedonali lunghi e pericolosi, ma anche città di parchi, giardini e fontane zampillanti di acqua colorata, dove ogni aiuola, anche quelle fra le corsie della tangenziale, è orgogliosamente curata. Non è facile orientarsi a Tehran, ma per trovare il nord non si sbaglia: basta cercare fra gli scorci delle vie quello tagliato orizzontalmente dalla linea, macchiata da bave bianche anche in giugno, che separa l’ocra ruvido e severo dei monti Alborz dal cielo pallido di smog e foschia. Le estreme propaggini settentrionali della città si insinuano nelle profonde gole alla base delle montagne, punteggiate da deliziose chay-khanè, case del tè, in cui si possono gustare riso e spiedini di carne, o yogurt con barbari, larghi fogli di pane morbido, a due passi da un ruscello, seduto a gambe incrociate e piedi nudi sui takht, i tronetti, palchetti di legno ricoperti da tappeti.

I grattacieli di Tehran fra il verde dei parchi e il marrone dei monti Alborz [da <http://www.williamsontrade.com/tehran.html>]
La fitta maglia delle basse case di Tehran riempie il finestrino dell’aereo in fase di atterraggio, 14 settembre 2004 [foto di Gian Pietro Basello]
I takht su cui si siede a gambe incrociate per mangiare e fumare il qaliyun in un locale tipico di Darband, giugno 2003 [foto di Grazia Giovinazzo]

Siamo in Iran, paese musulmano ma non arabo, distinto dal resto del mondo islamico per averne abbracciato la corrente sciita, 5 volte e mezzo la superficie dell’Italia ma con una densità 4 volte minore. Gli iraniani dicono che il presidente riformista Khatami non è riuscito a mantenere le promesse, non è riuscito a scavalcare i veti del conservatore consiglio dei guardiani. Il velo delle ragazze di Tehran è variopinto, lascia sbucare una cospicua ciocca di capelli e ha la tendenza a cadere spesso. Le donne girano per strada sole e sono una delle componenti più vivaci e attive della società. I mezzi di comunicazione sono stati potenziati e l’analfabetismo è in forte diminuzione.

Secondo Farian Sabahi (Storia dell’Iran [nel 1900], ed. Bruno Mondadori, 2003, euro 12,50), i moti studenteschi del giugno 2003 furono i più importanti dalla rivoluzione islamica dopo quelli del 1999. Io ricordo questo: gli studenti, tenuti a bada dalle milizie sciite, zig-zagano nel dedalo di auto ingorgate sulla tangenziale ovest di Tehran e il nostro tassista, per niente preoccupato dalle pietre degli uni e dai manganelli degli altri, inveisce pigramente contro il traffico promettendo di portarci a casa per l’una di notte.

Nel 1997 il candidato conservatore era stato battuto da Khatami, che sarà riconfermato con minor convinzione nelle elezioni del 2001. Nel marzo del 1999 Khatami aveva rotto l’isolamento politico internazionale dell’Iran venendo in Italia, primo paese occidentale ad essere visitato da un presidente iraniano; nella stessa occasione Khatami incontrò anche il papa, e l’abbiamo rivisto in piazza san Pietro pochi giorni fa, in occasione dei funerali di Giovanni Paolo II (la cui bara era posata su un tappeto persiano, un curioso effetto della globalizzazione presumibilmente sfuggito al rigoroso cerimoniale vaticano).

La bara di Karol Wojtyla sul sagrato di San Pietro, 15 aprile 2005 [da <http://www.poliziadistato.it/pds/primapagina/papa/images/galleria/big/grandi/09.JPG>]

The visit last week to Italy and the Vatican by President Hojatoleslam Mohammad Khatami was the first trip to Europe by an Iranian leader since the Islamic Revolution 20 years ago. There are various explanations for Italy’s invitation and for it being chosen first. It is not inconceivable that Italy wanted to legitimize its recent $1 billion oil deal with Iran. And having recently rescheduled $370 million in Iranian loans, the Italian export credit agency must ensure that its debtor appears creditworthy. The pro-Khatami daily "Khordad" editorialized on 9 March that being chosen first was a reward to Italy for being one of Iran’s biggest trading partners and its least troublesome European counterpart. In 1997, Italy was Iran’s top EU trading partner, having imported $1.8 billion in Iranian goods. Italy increased its oil purchases by 10 percent to 10.05 million tons in the first ten months of 1998. Also, Italian Foreign Minister Lamberto Dini visited Iran last year, as did Prime Minister Romano Prodi.
[Da A. William Samii, Radio Free Europe/Radio Liberty Iran report, 15 marzo 1999, volume 2, n. 11]

Il tappeto su cui è stata posata la bara di Karol Wojtyla (15 aprile 2005) è un modello tipico di Kashan.

Khomeyni, icona dell’Iran moderno, morì nel 1989. Fino all’anno precedente si era consumato l’inutile conflitto con l’Iraq, iniziato con l’aggressione dell’esercito di Saddam Hussein nel primo anno dopo la rivoluzione: inutile per gli almeno 2 milioni di iracheni e iraniani morti, ma non per il dittatore e l’ayatollah che lo trasformarono in un’occasione di coesione (e distrazione) nazionale, né per l’industria delle armi di Stati Uniti e Unione Sovietica. Saddam Hussein farà uso di armi chimiche e un missile a lunga gittata colpirà, nel tentativo di fare una strage al vicino bazar, l’antica moschea del Venerdì a Esfahan, precedentemente restaurata a cura di una missione italiana.

I volti degli ayatollah Khamenei (a sinistra) e Khomeyni (a destra) giganteggiano per le vie di Tehran [foto Grazia Giovinazzo] La moschea del venerdì di Isfahan, legata al cordone ombelicale del bazar [da <http://oi.uchicago.edu/OI/MUS/PA/IRAN/PAAI/IMAGES/ASF/10D4_72dpi.html>]

La guerra Iran-Iraq, detta anche ‘prima guerra del golfo’ o ‘guerra imposta’ (جنگ تحمیلی) in Iran, ebbe inizio con l’invasione irachena del 22 settembre 1980 e terminò il 20 agosto 1988 ripristinando la situazione territoriale precedente al conflitto. La guerra fu disastrosa per ambedue i paesi, portando allo stallo dello sviluppo economico e interrompendo le esportazioni di petrolio. Le stime parlano di 1.5 milioni di vittime per il solo Iran, con 350 bilioni di dollari di danni. L’Iraq ne uscì con enormi debiti, fra cui uno di 14 bilioni di dollari nei confronti del Kuwait che Saddam Hussein pensò di "saldare" con l’invasione del piccolo stato del golfo nel 1990.
[Si veda Farhang Rajaee, The Iran-Iraq war: the politics of aggression, Gainesville: University Press of Florida, 1993; <en.wikipedia.org/wiki/Iran-Iraq_War>;<users.erols.com/mwhite28/ iraniraq.htm>]

Gli avvenimenti di cui parlano sono separati da vent’anni, ma raccontano quasi la stessa storia, come una rivoluzione di un pianeta che torna al punto di partenza dell’orbita dopo aver compiuto un intero giro attorno ad un punto fisso che non si è spostato di un centimetro: sono i ricordi di Ryszard Kapuściński (Shah-in-Shah, ed. Feltrinelli, 2001), testimone dell’ultimo periodo di governo dello scià, e le memorie di Azar Nafisi (Leggere Lolita a Tehran, ed. Adelphi), vittima delle restrizioni che la legge islamica imponeva alle donne nel 1995. Eppure nel mezzo c’era stata la rivoluzione: nel gennaio del 1979 lo scià era fuggito all’estero e l’Iran si era trasformato, per volere del suo stesso popolo, in una Repubblica Islamica, il primo ed unico stato al mondo a coniugare fattivamente queste due parole. Dirà poi Rafsanjani, presidente dal 1989 al 1997, in un discorso parlamentare: “Quando mai nella storia dell’Islam si è visto un parlamento, un presidente, un primo ministro e un governo? In realtà l’80% di quello che facciamo non ha precedenti nella storia dell’Islam”. Nel 1997 Azar Nafisi era ormai fuggita, come tanti altri suoi connazionali, negli Stati Uniti e la pubblicazione del suo diario a distanza di 8 anni, nel 2003, sembra fare il gioco della politica di Bush. L’Iran che ho visto nel 2003 e nel 2004 non è quello raccontato dalla Nafisi. Per questo preferisco il romanzo di Bijan Zarmandili, italiano d’adozione, che sotto il titolo La grande casa di Monirrieh (ed. Feltrinelli, 2004, euro 14) ripercorre, sullo sfondo della drammatica vicenda sentimentale di una donna, quasi cent’anni di storia iraniana, un secolo, il 1900, che ruota tutto attorno al petrolio (l’Iran detiene l’11% delle risorse mondiali) e ai pesanti condizionamenti di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Gli stati che si denominano ufficialmente repubbliche islamiche sono Pakistan (dal 1956), Mauritania (dal 1958), Afghanistan e Iran.

Si veda OPEC Annual Statistical Bulletin 2003, World proven crude oil reserves by country, anno 2003.

Nel 1953 gli Stati Uniti portarono a termine quella che è comunemente ritenuta dagli storici la prima operazione segreta finalizzata al rovesciamento di un governo straniero. A farne le spese fu il premier iraniano Mossadeq, che aveva ormai messo alle strette le pretese dello scià e della famiglia reale sulle risorse agricole e petrolifere dello stato. Senza quel colpo di stato, storicamente documentato, probabilmente la monarchia sprecona dello scià non avrebbe mai potuto trasformarsi in dittatura, non sarebbe stata istituita nel 1957 la famigerata polizia segreta SAVAK, non ci sarebbe stato l’enorme sperpero in sfarzo e armamenti (che lo stesso esercito non sapeva utilizzare) e non ci sarebbero stati quindi i presupposti stessi della rivoluzione islamica del 1979.

Mossadeq, uomo dell’anno 1951 per il Time

L’Italia ha sempre mantenuto un rapporto privilegiato con l’Iran: quando Mossadeq nazionalizzò il petrolio nel 1951, ne continuò l’acquisto nonostante le pressioni diplomatiche inglesi per il boicotaggio. Allora la FIAT declinò più volte l’invito a produrre le automobili per un mercato che si sarebbe rapidamente trasformato in uno dei più fiorenti dell’Asia. Oggi l’Italia, assieme al Giappone, è uno dei principali partner economici. E non solo: gli iraniani guardano con interesse e collaborazione agli italiani che studiano la loro storia (l’Iran è lo stato con il maggior numero di scavi archeologici al mondo).

La conferenza stampa della FIAT

Il 26 gennaio 2005 la FIAT ha firmato un accordo con un’industria automobilistica iraniana per produrre e distribuire i propri modelli (in particolare quelli della famiglia Palio) in Iran. [Si veda Iran international, marzo 2005, n. 34]

Nel gennaio 2002 il presidente statunitense George W. Bush ha incluso l’Iran nel cosiddetto “asse del male”, parole significativamente ribadite qualche mese fa in occasione dell’insediamento del suo secondo mandato. Oggi gli Stati Uniti “controllano” l’Afghanistan e l’Iraq, ovvero la quasi totalità dei confini orientali e occidentali dell’Iran. L’Iran si è trovato a far fronte ad una massiccia immigrazione (2 milioni) di rifugiati afghani, accolti senza far troppe storie. Con tutte le sue contraddizioni, gli indicatori di povertà dell’Iran rimangono fra i più bassi di tutta l’Asia, se si escludono realtà più ricche e ridotte come Israele, Giordania e i principati del golfo. Agli iraniani, agli osservatori internazionali e a tutti coloro che hanno a cuore l’autodeterminazione dei popoli non rimane che attendere i risultati delle none elezioni presidenziali del prossimo 17 giugno.



La tenda di cemento del monumento Azadi (‘libertà’) accoglie i visitatori all’esterno dell’aeroporto di Tehran; in primo piano un’insegna luminosa a forma di tulipano, simbolo del martirio [foto di Nicola Lecchi]

Iran aggressively pursues these weapons and exports terror, while an unelected few repress the Iranian people’s hope for freedom. [...] States like these, and their terrorist allies, constitute an axis of evil, arming to threaten the peace of the world. By seeking weapons of mass destruction, these regimes pose a grave and growing danger. They could provide these arms to terrorists, giving them the means to match their hatred. They could attack our allies or attempt to blackmail the United States. In any of these cases, the price of indifference would be catastrophic. [Da George W. Bush, State of the Union address, 29 gennaio 2002]

So it is the policy of the United States to seek and support the growth of democratic movements and institutions in every nation and culture, with the ultimate goal of ending tyranny in our world. [...] No nation owns these aspirations, and no nation is exempt from them. We have no intention of imposing our culture. But America will always stand firm for the non-negotiable demands of human dignity: the rule of law; limits on the power of the state; respect for women; private property; free speech; equal justice; and religious tolerance. (Applause.) America will take the side of brave men and women who advocate these values around the world, including the Islamic world, because we have a greater objective than eliminating threats and containing resentment. [Da George W. Bush, sworn-in to second term, 20 gennaio 2005; i regimi politici di Cuba, Iran, Corea del Nord, Myamar, Bielorussia e Zimbabwe sono stati definiti tirannie da Condoleeza Rice nel discorso al senato]

Si vedano gli indicatori di povertà secondo lo Human Development Report elaborato dall’UNDP (United Nations Development Programme), il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite.

Nomadismo: è uno dei denominatori comuni di almeno tre millenni di storia dell’Iran, praticato in senso lato dalla stessa corte e dai re, dalla dinastia achemenide (558-330 a.C.) come dai cagiari (1787-1925 d.C.). Lungi dall’essere segno di sottosviluppo e arretratezza culturale, rappresenta una strategia di sussistenza funzionale alle condizioni ambientali e climatiche dell’altopiano iranico.

Napoli, 29 aprile 2005

O Traveller, strike and fold the tents of dawn:
Already from this caravanserai the scout moves on
Ahead, the drummer beats the morning drum,
The camel-drivers pack their mounts, and would be gone.

Manuchehri (XI sec. d.C.), Diwān, XXVIII 1-2

Ringrazio: Gerardo Barbera e Natalia Tornesello (Università “L’Orientale” di Napoli) per aver messo a mia disposizione le loro esperienze e conoscenze sull’Iran; Daniela Meneghini (Università “Ca’ Foscari” di Venezia) per aver individuato i versi di Manuchehri; Sara Nepoti (Cerchio Imperfetto) e Angela Morisi per aver letto attentamente il testo di questo articolo; Marco Loreti e Nicola Lecchi per i momenti che hanno saputo fissare nell’occhio delle loro macchine fotografiche.

Le didascalie delle foto appaiono al passaggio del mouse.


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Napoli, 29/IV/2005